IL GRANO SIBERIANO VALTELLINESE INSERITO NEL REGISTRO NAZIONALE DELLE VARIETA’
Intorno alle coltivazioni autoctone delle vallate alpine si è sviluppato da anni un interesse legato alla riscoperta delle proprie radici, ma non privo di effetti che potrebbero essere vantaggiosi per il territorio in chiave commerciale e turistica. Anche la Valtellina è stata coinvolta in questi processi di rivendicazione identitaria, legati ad alcuni prodotti alimentari che sono diventati espressione tipica della nostra realtà culinaria. Mi riferisco, in particolare, al grano saraceno: questo cereale ha assunto oggi un’importanza di prim’ordine legata al piatto valtellinese per eccellenza (i pizzoccheri) e a quelli altrettanto peculiari della nostra gastronomia quali sciatt, chiscioi, manfrigole, polenta ecc… Non dimentichiamo, poi, le implicazioni legate al turismo gastronomico, che Teglio ha saputo interpretare al meglio, e all’economia che da quelle coltivazioni ha tratto nuova linfa vitale. Molti terreni sono stati riportati all’antica coltivazione del grano saraceno così come alcuni mulini sono stati rimessi in opera per le operazioni di macinatura e produzione di farine. Parlare di grano saraceno, tuttavia, è più complicato di quel che sembra. Anzitutto bisogna sapere che non esiste una sola varietà e poi si pone il problema di identificare quella veramente autoctona, cioè quella che risulta nativa di una località e che dovrebbe garantire la “purezza” del cultivar e quindi dei piatti che con esso vengono preparati. In Valtellina la coltivazione del grano saraceno comune (nome scientifico Fagopyrum esculentum Moench), detto volgarmente furmentùn, era spesso associata con quella del grano “siberiano” (nome scientifico Fagopyrum tataricum Gaertn), detto volgarmente zibèria o anzibaria. Le piante sono molto simili, ma il gusto della seconda è assai amaro e per questo era una coltivazione da usarsi solo in caso di estrema emergenza (il grano siberiano, infatti, è assai più resistente alle basse temperature rispetto al grano saraceno comune). In tempi di buoni raccolti il grano siberiano si estirpava completamente ritenendolo inadatto alla tavola e soprattutto temendo che la sua presenza potesse contaminare il più apprezzato “fratello”. Alcuni coltivatori hanno voluto sperimentare il ritorno di questa varietà, a cui gli studi attribuiscono molte proprietà nutrizionali finora poco note, anche se ciò è andato a urtare contro una parte delle comunità agricole locali, ancorate ai loro metodi e alle loro convinzioni. È indubbio che, alla luce di questi studi, il grano siberiano rappresenti una risorsa, tant’è che la varietà è stata da poco inserita nel Registro Nazionale delle Specie Agrarie e Ortive da Conservazione grazie all’interessamento dell’Università della Montagna di Edolo; purtuttavia non mancano le controindicazioni (si veda l’interessante saggio di Michele Corti http://www.ruralpini.it/Grano_saraceno_di_Teglio.html).
Anche l’Alta Valle verrà coinvolta dalla sperimentazione sul grano siberiano: il Vivaio di Valdisotto, infatti, è stato contattato per la semina di questo cultivar, il quale – non dimentichiamolo – fu suggerito dall’insigne storico Ignazio Bardea nel Settecento per i territori particolarmente freddi come la valle di Livigno. Il passo successivo dovrebbe essere quello di renderlo fruibile anche a terzi attraverso l’allestimento di una filiera vera e propria. Il Vivaio non è nuovo ad attività di questo genere: già gli anni scorsi, infatti, aveva destinato parte dell’area coltivabile alla piantagione della segale, che poi era stata lavorata in loco con la trebbiatrice ottenendone una farina alimentare molto apprezzata. Le collaborazioni che la piccola realtà agricola di Valdisotto riesce ad instaurare sono interessanti e dimostrano l’attenzione verso il recupero di peculiarità tipiche dell’Alta Valle.
Anna
Foto: www.ruralpini.it
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