STORIE DAI GIORNALI D'EPOCA - LA CAPANNA BERNASCONI ALLE FALDE DEL TRESERO
Nell’agosto del 1922 venne intitolata a Nino Bernasconi di Como la capanna che appena un anno prima era stata realizzata e inaugurata per iniziativa del padre Italo, il quale nel 1921 aveva voluto riadattare un baraccamento militare della Grande Guerra in un piccolo rifugio che potesse dare ospitalità a qualche alpinista.[1]
Donata dallo stesso cav. Bernasconi al Cai Milano, il rifugio Bernasconi era collocato alle falde della parete ovest del pizzo Tresero, la montagna sulla quale era tragicamente perito il figlio Nino in un tentativo di ascesa solitaria alla fine del luglio 1922. Era una costruzione semplice, «in muratura ad un solo piano, con un unico locale con 7 cuccette» ed inizialmente non prevedeva alcun “servizio d’alberghetto” ma era accessibile liberamente ritirando le chiavi custodite dall’albergo Clementi di S. Caterina Valfurva e presso le guide di Valfurva, in particolare Giuseppe Bonetta che – conoscendo bene il cav. Bernasconi per averlo accompagnato in qualche ascensione – era diventato il referente per la piccola struttura alpina, alla quale aveva contribuito sin dall’inizio attraverso lavori di costruzione e manutenzione. Ingrandito e riammodernato nel 1941, con l’aggiunta di un nuovo e più grande locale, venne affidato in gestione proprio alla guida alpina Giuseppe Bonetta, che lo teneva aperto risiedendovi stabilmente per le poche settimane estive buone per le scalate. All’epoca, infatti, la salita al Tresero avveniva principalmente dal versante ovest e il rifugio Bernasconi diventava, quindi, l’approdo più naturale per gli alpinisti che volessero cimentarsi sia con la vetta del Tresero, sia con la famosa traversata delle 13 cime.[2]
Purtroppo, il periodo bellico fu devastante per la struttura, che venne gravemente danneggiata e distrutta parzialmente: dei due locali che lo componevano, infatti, solo uno (quello più recente) rimase in piedi. Nel 1948, pertanto, il Cai Milano costituì un Comitato per salvare almeno l’unico ambiente rimasto «isolandolo e procedendo ai restauri necessari per la sua conservazione». Venne aperta una sottoscrizione fra soci e simpatizzanti, alla quale contribuirono lo stesso Bonetta con 2000 lire (parecchi soldi per l’epoca!) e il figlio Mario che eseguì gratuitamente le varie opere murarie, mentre il comune di Valfurva offrì gratis 3 mc di legname da costruzione. Tra i vari benefattori, molti forestieri[3] ma anche tanti valligiani, come la guida GB Compagnoni, e lo Sport Hotel di S. Caterina Valfurva. Alla chiusura della raccolta, il Cai Milano aveva a disposizione 124.533 lire che vennero subito impiegate per i lavori primari affinché il rifugio tornasse in funzione, ed infatti nella stagione estiva del 1949 venne riaperto offrendo agli alpinisti «decorosa e accogliente ospitalità». Il 7 agosto del 1949 si tenne l’inaugurazione ufficiale del rifugio ristrutturato, con uno scenografico falò acceso la sera precedente nello spiazzo dove era collocata l’asta portabandiera, «per indicare alle valli sottostanti la rinascita della Capanna, mentre dai presenti venivano cantate in coro le vecchie canzoni di montagna». La domenica fu una giornata magnifica, con i discorsi di autorità e il taglio del nastro azzurro posto attraverso la porta d’ingresso e, dopo la modesta colazione, nel pomeriggio fu un susseguirsi di persone venute su dal fondovalle per visitare la capanna. Il legame con la famiglia Bernasconi era tenuto vivo dalla figlia del cav. Italo nonché sorella di Nino, la signora Carla Bernasconi in Colombo.[4]
Questa la descrizione del rinnovato rifugio Bernasconi:
«Il locale restaurato è una robusta costruzione in muratura con tetto in lamiera, e assai confortevole. Il locale e il sottotetto sono stati rivestiti in legno e attrezzati con 6 cuccette su reti metalliche, di cui 4 trovano posto a terreno e 2 nel sottotetto, al quale si accede a mezzo di comoda scaletta. In quest’ultimo locale (munito pure di una piccola finestra) possono essere inoltre ospitate altre 6 persone in apposito cassone-tavolaccio con paglia. Materassi, cuscini e coperte sono stati rinnovati, e così al completo tutte le stoviglie; è stata anche installata una cucinetta economica con forno. La capanna possiede anche un piccolo armadio di pronto soccorso».
Il progetto di ristrutturare anche il secondo locale rimase nel libro dei sogni, sebbene il Cai milanese sperasse di poterlo recuperare contando sull’aiuto generoso degli amici e simpatizzanti, che all’epoca non mancavano mai. Infatti, nel 1954 provò ad organizzare una “Vegliazzurra” a Milano per raccogliere altri fondi da destinare all’opera nonché alla manutenzione dell’esistente, dal momento che – a tali quote – l’azione del gelo corrodeva legno, perline e tetto e il vento squassava telai, porte e finestre. Si fece appello allo status del Bernasconi quale esemplare superstite di «quelle vecchie Capanne tanto care ai nostri padri», dove trascorrere «una serata silenziosa al lume della candela». Il 27 febbraio 1954 l’appello venne raccolto da 400 persone, grazie alle quali si pensò di dare nuova vita alla struttura; il buon proposito, tuttavia, ebbe vita breve.
Nel 1955 Giuseppe Bonetta passò il testimone ai figli Mario e Giuseppina, che proseguirono nella gestione del rifugio Bernasconi succedendo al padre che, ormai settantenne, risiedeva stabilmente a S. Nicolò Valfurva portandosi a S. Caterina solo in estate per governare gli armenti di famiglia, nella località al tempo nota come “ponte dei sospiri” (oggi Vedig). Ma nel volgere di pochi anni la custodia del Bernasconi diventò sempre meno “attraente” e il servizio di alberghetto venne dapprima ridotto al solo mese di agosto per poi cessare del tutto a partire dal 1964: le brochure pubblicitarie del Cai Milano, infatti, che sino al 1963 avevano dato notizia della custodia e dell’apertura, cessano improvvisamente per riprendere nel 1965 con l’avviso delle chiavi in deposito presso il Bonetta, dove gli interessati avrebbero potuto ritirarle su richiesta. Ciò non significò l’abbandono totale: la famiglia Bonetta continuò a vigilare sulla struttura e a tenerla in buono stato, ma nel frattempo aveva assunto impegni ben più gravosi legati alla gestione del rifugio Berni, in capo al Cai di Brescia. D’altronde, la normale via di salita al Tresero passava ormai da un altro versante e il Bernasconi non aveva più motivo di essere frequentato per tale ascensione.[5]
Ciononostante, almeno fino agli anni 70, il rifugio Bernasconi – seppur non gestito in modo continuato – continuò ad essere presente sulle riviste del Cai che elencavano le strutture esistenti alle quali gli alpinisti potevano appoggiarsi in caso di bisogno: nel 1973, ad esempio, Mario Bonetta risulta ancora custode. Negli anni più recenti del grande boom dello sci estivo si ventilò l’ipotesi di un recupero dell’edificio, nel contesto di investimenti a largo raggio nella zona del Tresero; in tale prospettiva il Cai Milano e il comune di Valfurva pervennero a un amichevole accordo in base al quale il diroccato Bernasconi divenne di proprietà comunale. Da allora, sul piccolo rifugio eretto in memoria di un giovane alpinista, calò l’oblio.
Anna
si ringraziano Elena Bonetta e Silvano Bedogné
citazione obbligatoria delle fonti in caso di riproduzione
Foto di copertina: archivio Tuana, pubblicata anche su Lo Scarpone del 1° settembre 1949
[1] Dal necrologio de “Lo Scarpone” del 16 marzo 1947: «Uomo di grande energia ed attività, era nato a Como e intorno al 1902-1906 fu uno dei primi pionieri dello sci insieme al fratello Guido Bernasconi. Organizzatore di alcune gare al Bisbino e a Brunate, fu poi per la sua attività commerciale più volte in America e compì ascensioni nelle Cordigliere Andine. Organizzatore assiduo di gite sociali, Italo Bernasconi fu più volte membro del Consiglio della Sezione, apportandovi l’appassionata attività. Fu altresì campione di primissimo ordine di canottaggio, sua seconda passione sportiva».
[2] Il rifugio, inoltre, poteva essere ottimamente utilizzato dagli alpinisti che oltre al Tresero volessero effettuare la salita alla Punta Pedranzini, alla cima Dosegù e al S. Matteo.
[3] Oltre a denaro, i sottoscrittori offrirono posate, piatti e fondine, il libro delle firme, il quadro di S. Bernardo da Mentone protettore degli alpinisti, l’installazione gratuita dell’impianto luce, la fornitura di una cucina economica. Anche il famoso pittore Paolo Punzo mise all’asta un quadro della Bernasconi per contribuire alla sua manutenzione.
[4] Altri membri della famiglia presenti furono: la signora Micaela Porro Bernasconi e la signora Kettlitz zia paterna.
[5] Infatti, nel 1966 venne realizzato il nuovo bivacco Seveso in posizione più adatta all’ascesa.
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